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A M.

Quattro anni fa avevo 22 anni ma non voglio che questa frase sia un mero truismo, perché a 22 anni sapevo un ‘botto’ di cose su come potesse andare, in generale, tutto quanto. O, forse, conoscevo solo tutti i possibili rovesci delle cose più belle che una persona nell’arco di un’intera vita può conoscere. Io le avevo avute già tutte a 22 anni.

Tra queste, ho avuto un Amico che con uno schiocco di dita — letteralmente — mi faceva risollevare lo sguardo dai pensieri più cupi. Ho passato con lui svariati Natali, svariate Pasque, di anno in anno, mentre diventavamo grandi e crescevamo diversi. I miei capelli si facevano ora più biondi ora più scuri, di estate in estate in base alla vacanza. I suoi muscoli restavano scolpiti e compatti, quasi ci fosse nato, mentre il suo volto cambiava. Due biondi per strada, due rockettari, due antipatici, due cinici, due stronzi che si volevano un bene dell’anima, due che si odiavano nella stessa misura in cui non potevano che amarsi, due che si conobbero davvero quando scoprirono di odiare la stessa persona, nella definizione negativa del loro essere più puro, più rude, più vero. Ho passeggiato per giorni interi con lui sui sampietrini di questo paese in cui ancora vivo e nel quale non mi sono mai sentita a casa. Ero fuori di casa con lui, lui che era di un altro paese ancora e, probabilmente, era fuori dal mondo.

Ho avuto, poi, un Amore, di quelli caustici che lacerano da dentro, di quelli che si sentono dagli altri quando li inventano e mettono paura. Gli ho donato la parte più centrale e pulsante del mio cuore. Glielo dissi e mantenni la promessa. Persi l’Amico e fui sua. Volavo alto, allora, sulle ali di un sogno ad occhi aperti. Ero innamorata al punto tale che nessun altro amore poteva convivere con quello che mi riempiva il cuore e la testa. Ma nessuno, pensavo, avrebbe mai più potuto raccogliere il mio umore dal pavimento e lanciarlo oltre le stelle come sapeva fare il mio Amico. Avevo perso il più grande contatto esterno con me stessa, avevo perso il canale di comunicazione non verbale, aerea, invisibile, che si crea tra due anime intimamente e assurdamente compatibili, come la mia e la sua. Burro e diamante.

D’altro canto, il sentimento del mio Amico era malato. Lo sapevo, me lo aveva detto e io avevo riso. Come può, pensavo, un’amicizia del genere subire il vizio di un sentimento così tanto più effimero, così tanto più pericoloso e difficile. Come può il mio Amico essere geloso, come può non soffrire il mio Amore.

Non mi spiegavo tante cose, a quel tempo. Non riuscivo a seguire le trame dello sfacelo delle altre relazioni che avevo intorno, trame che a tratti sono diventate così fitte da tessermi intorno una ragnatela. Restai come una mosca in quel telaio infame. Non mi spiegavo come, ma era successo che tutti coloro che amavo di più fossero ad un tratto persi, ostili, per niente collaborativi, per niente sensibili alla voce di una mosca intrappolata.

Io cantavo ancora verità, ma quel canto era per loro un insulso ronzio. Nessuno fu lì a spiegarmi i motivi: i ragni si ritirarono nei loro buchi, lasciandomi su quella ragnatela senza più paura di uscirne solo uccisa.

Ho conosciuto, allora, la Solitudine, quella profonda, pura, totalizzante. Passai mesi in cui fare la fila in un qualunque ufficio, tra persone che non conoscevo, pesava al punto che non mi faceva arrivare allo sportello. Me ne andavo, iniziavo a scappare, a nascondere le lacrime. Più le nascondevo, più loro cercavano di uscire, cercavano persone che riconoscessero i dolori di quello sguardo schivo. Venivano chiamate fuori a maggior forza tra gente che conoscevo, che avrebbe potuto solo chiedermi banalmente come stavo o darmi una carezza sulla guancia e mai lo faceva. Sapevo che lo schiocco magico a fare da scopa sui miei dispiaceri non ci sarebbe stato più, non m’illudevo; mi stupivo, però, di venire a conoscenza di una nuova cattiveria chiamata Indifferenza. Indifferenza di fronte a un volto scavato, a delle scapole più visibili del solito, ad un paio d’occhi rossi che è lampante che abbiano pianto nelle scorse ore.

Ho conosciuto la Falsità e l’Invidia di chi avevo ancora intorno, le riconoscevo perché mi facevano sentire ancora più sola e sconfortata. Pensavo che mi rimanesse solo la dea Ira da invocare perché andassi avanti, superando tutto ciò. Provai a canalizzare la rabbia in modi che non m’appartengono, per poi ritrovarmi nel solito lavandino di pianto. Ricordo la preoccupazione di mia madre, la sua consapevolezza che qualcosa dentro di me era morto.

Ma non era ancora tutto finito. Nel gran rimescolamento di carte che segue ogni rottura totale col passato, mi ritrovai a parlare con un gruppo di gente nuova, la sera prima di una maratona sfiancante che avrei affrontato senza il minimo allenamento. Si parlò di banane e di sellini di bici rotti, argomenti così scemi che non potevo che ridere. Il perfetto ritratto di chi crede di aver perso tutto, ha finito le lacrime e non gli resta che ridere.

Col sorriso trovai un nuovo Amico che, senza gli eccessi del primo, seppe starmi accanto quando i ragni erano andati via, quando la tela iniziava ad infittirsi e a stringermi il collo. Ero incastrata tra la disillusione e una nuova speranza che qualcuno potesse ancora starmi vicino, capirmi, dirmi quella parola di conforto che in tanti mesi mi era stata negata. Il fatto che sapesse farmi sorridere, tra tante lacrime, fu una magia ed un miracolo che ho benedetto milioni di volte, salvo maledire l’altra faccia dell’Amicizia. Mentre io mi rialzavo grazie a quel ragazzo così ottimista e forte, mietevo vittima in lui un ragazzo ben più provato di me, ben più incazzato con la vita, ben più delicato su tutti gli aspetti per cui io avevo già fortificato i precordi con le cicatrici, mentre lui offriva carne tenera ad ogni lama. Ci fu una rinascita e un’uccisione a cui nessuno poteva porre rimedio a cominciare da me.

Non sarebbe stato possibile che io rinunciassi ad un Amico in lui e lui ad un Amore in me.

«La virtù, la virtù dico, (…)concilia le amicizie e le conserva. In essa è l’armonia, in essa la stabilità, in essa la costanza; quando essa è emersa e ha mostrato il suo lume e ha visto e riconosciuto lo stesso lume in un altro, a quello s’avvicina e a sua volta riceve la luce che è in quell’altro. Da ciò s’accende sia l’amore sia l’amicizia: difatti entrambi traggono il loro nome da «amare». Amare, poi, non è altro se non volere bene a colui che si ama, senza che ci sia alcun bisogno da soddisfare né alcuna utilità da cercare. Quest’ultima, tuttavia, fiorisce naturalmente dall’amicizia, anche se tu non la stavi cercando. »

Cicerone, Laelius de amicitia, 27

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